I cambiamenti per cui nacque il Partito Democratico

Enzo Puro prova a spiegare il cambiamento di cui tutti parlano senza entrare mai nel merito. Fordismo e post fordismo. Il grande uso del termine cambiamento. Spazio sociale, spazio fisico, spazio pubblico. La crisi del politico. Chi sta in alto e chi sta in basso, ricchezza e povertà. Le domande da porsi.

Letto 4699
I cambiamenti per cui nacque il Partito Democratico

Il giovane e bravo segretario del Pd della Federanzione provinciale di Roma, Rocco Maugliani, mi ha chiesto di coordinargli politicamente la scuola di formazione da lui fortemente voluta. Una bella esperienza che sta riuscendo particolarmente bene.

In questo quadro ho tenuto una sorta di lezione ai circa 50 allievi della scuola, che prova (saccheggiando testi importanti di autori come Castells, Bauman, Beck, Revelli, Bonomi, Magatti, Touraine) a specificare i cambiamenti/rotture della formazione sociale contemporanea in base ai quali si rese necessaria la fondazione di una organizzazione politica come il Partito Democratico.

Il Partito democratico nel 2008 nacque certamente per un grande atto di generosità politica e di lungimiranza dei suoi soggetti fondatori.

Ma possiamo dire che la sua nascita era una necessità oggettiva.

Una urgenza portata dai tempi e dal cambiamento.

Qualcosa che stava sotto la pelle della politica e che a mio avviso ancora non è emersa completamente.

Ma quali sono questi cambiamenti di cui tutti parlano?

Io penso che la grammatica di questi cambiamenti sia stata all’inizio il lievito che ha spinto verso la nascita del PD.

La consapevolezza che le vecchie tradizioni si erano ormai prosciugate e che, in un quadro sociale, economico, culturale completamente cambiato non potevano più produrre innovazioni.

E chi era ed è ancora più convinto della giustezza del progetto del PD si era reso conto che la fine di un vecchio mondo non era poi la fine del mondo (come spesso ci invita a pensare Alaine Touraine uno dei più grandi sociologi europei).

E voglio provare a far emergere quelle che sono le novità della contemporaneità, quelle novità che ci fanno dire che con la testa rivolta all’indietro si fa nostalgia ma non si fa Politica alta.

1 - FORDISMO E POST FORDISMO

Partiamo con una banalità.

Le organizzazioni politiche tradizionali (soprattutto quelle della sinistra ma non solo) erano strutturate, diciamo così, sul modello fordista.

Ed il modello fordista, semplificando ancora, si basava sulla grande fabbrica che era una ordinatrice di senso dell’intera società e costituiva il modello per ogni formazione sociale.

Avevamo aggregati enormi di operai dentro la grande fabbrica e appena fuori ai suoi confini.

Avevamo i quartieri operai costruiti a ridosso della grande fabbrica. E nei quartieri operai c’era la lega sindacale, la sezione di Partito, il dopolavoro, la Casa del popolo.

Era una società compatta (se vogliamo usare un termine baumanniano possiamo dire che era una società solida). Dove i programmi di vita non erano a breve. Si riusciva a programmare la propria vita a lungo termine.

E lo spazio sociale, cioè la trama delle relazioni personali, coincideva con lo spazio fisico.

Gli avvenimenti più importanti nella vita di una persona si svolgevano sul territorio, nello spazio fisico.

Teniamo a mente questi due concetti, spazio fisico e spazio sociale, perché più avanti ci ritorneremo.

Si nasceva in un modo e si aveva la ragionevole sicurezza di morire senza aver cambiato molto della propria esistenza.

L’investimento sul futuro era sui propri figli. Il sogno di quei lavoratori era di avere un figlio dottore (come sprezzantemente afferma l’amico della Contessa nella famosa canzone sessantottina scritta da Paolo Pietrangeli).

La produzione, finalizzata a produrre beni che sarebbero in seguito diventati beni di prima necessità (il frigorifero, la lavatrice, la televisone, l’automobile) aveva a partire dal secondo dopoguerra un mercato immenso. Il simbolo di quel modello produttivo erano le scorte di beni, i piazzali della Fiat o i magazzini dei produttori di elettrodomestici dove venivano stipate le produzioni in attesa di essere vendute. Si produceva diciamo così al buio sapendo che il mercato tirava e si sapeva che quei beni sarebbero stati venduti (tutto il contrario di oggi che si produce sugli ordini, just in time).

Altra caratteristica di quel modo di produzione era il suo legame con lo Stato nazionale e con il territorio circostante.

La Fiat era una azienda italiana, con i suoi uffici in Italia e che pagava le tasse in Italia. Agnelli aveva il suo Ufficio fisso al Lingotto. Ed uno sciopero in fabbrica aveva effetti pesanti sulla produzione ed il datore di lavoro doveva scendere a patti per evitare di subire danni maggiori (tenete a mente questo aspetto perché oggi non è più cosi, come vedremo).

Tutta la società si conformava a questo modello. La stessa P.A. funzionava secondo i principi gerarchici della società fordista.

I Partiti avevano, in questo contesto, un ruolo educativo e pedagogico.

Per tantissimi andare in Sezione significava formarsi e significava avere informazioni.

Non c’erano tanti strumenti per informarsi. Per questo ai comizi ci andava una marea di gente (fate mente locale invece sulla enorme quantità di informazioni che oggi ci aggrediscono da ogni punto).

E come la fabbrica fordista era strutturata gerarchicamente così lo erano i Partiti politici dove il flusso di input e di informazioni era sempre a scendere dall’alto verso il basso.

QUESTO MODELLO DI PRODUZIONE COMINCIO’ A ENTRARE IN CRISI GIA’ NEI PRIMI ANNI 70 (E DI CONSEGUENZA LA FORMAZIONE SOCIALE A CUI AVEVA DATO VITA).

Il mercato era saturo. In Occidente ormai tutte le famiglie avevano i loro elettrodomestici e le loro automobili. E fuori dall’Occidente c’era ben poco. Le scorte cominciarono a rimanere troppo a lungo sui piazzali e nei magazzini. Cominciò a manifestarsi l’esigenza di cambiare modello produttivo.

Si cominciò a puntare sui servizi. Il lavoro manuale cominciò ad essere svalutato. Qualcuno, a mio avviso sbagliando, teorizzò la fine del lavoro.

Lentamente a partire dagli anni 70 le grandi agglomerazioni operaie, le grandi fabbriche cominciarono a scomparire. Ed i grandi numeri a ridursi.

Guardate quella che a Roma era la zona industriale per eccellenza, l’asse della Tiburtina. Oggi percorrendola fin sotto Tivoli abbiamo un panorama di scheletri produttivi, di manufatti abbandonati, di archeologia industriale che un tempo erano pieni di vita operaia.

O Guardate il panorama ex industriale di Colleferro, altro centro un tempo di forte concentrazione industriale.

Il post fordismo cominciò a mettere in discussione molte nostre certezze politiche anche se per tutti gli anni 80 e gli anni 90 non si avvertiva questo netto cambio di passo.

Le forze politiche non avvertirono per tempo quanto stava cambiando. Eppure i grandi sociologi europei già da tempo studiavano questi cambiamenti.

La cassetta degli attrezzi della politica rimase invece quella che era prima.

Non prevenne e non si riadattò ai nuovi paradigmi.

MA IL VERO SALTO CHE SCONVOLSE TUTTO AVVENNE CON LA RIVOLUZIONE INFORMATICA, CON LA RIVOLUZIONE NELLE COMUNICAZIONI (I CELLULARI) E CON LA RIVOLUZIONE DEI TRASPORTI (I GRANDI AEREI CARGO ED I CONTAINER DI NUOVO TIPO).

La società della informazione scaturita dall’intreccio tra la rivoluzione epocale delle tecnologie informatiche e trasportistiche e la finanziarizzazione estrema della economia è una formazione economica sociale di nuovo conio, diversamente definita da pensatori anche di scuola diversa, chi la chiama capitalismo tecno nichilista (Magatti), chi supercapitalismo (Robert Reich) chi turbo capitalismo (Giorgio Ruffolo).

Non resta che prenderne atto. Come Carlo Marx a metà ottocento prese atto di quel nuovo fenomeno, il capitalismo industriale, che spuntava da sotto le antiche vestigia feudali dell’ancien regime (e che ci mise tantissimo a prendere l’egemonia).

Marx fece una grande operazione teorica a suo tempo (da cui scaturirono concrete indicazioni pratiche), dando credibilità alla nuova formazione economico-sociale, la inquadrò sottolineandone i suoi fattori negativi ma ne estrasse i fattori positivi di innovazione e ne fece discendere una scienza politica (diversamente articolata poi nel secolo successivo tra i riformisti socialdemocratici e gli stalinismi vari dei comunisti).

La società attuale è frammentata e liquida, non ha più un centro ordinatore unico, i confini sono sempre più porosi e mobili, la deterritorializzazione, IL NON ESSERE CIOE’ PIU’ LEGATA AD UN TERRITORIO SPECIFICO, è una caratteristica del potere delle nuove elites.

2 - IL GRANDE USO DEL TERMINE CAMBIAMENTO

Si fa un grande uso del termine cambiamento, ma si rimane nel vago.

E vi rimangono sia coloro che lo brandiscono per spingere avanti quelle che a loro avviso sono le loro innovazioni sia chi resiste e si aggrappa a vecchi riti e miti della politica.

Parlare di cambiamento è dire tutto e non dire nulla.

Come è cambiato il mondo? Perché una cosa è sicura, il mondo è cambiato irreversibilmente ed affrontare questi cambiamenti con le vecchie certezze ed i vecchi paradigmi è l’errore più grande che si poteva e si può fare.

Il PD nacque perché ci si rese conto che era necessario mettere in campo un nuovo paradigma, avendo compreso, come ci insegna uno dei più grandi sociologi europei, che la fine di un mondo non è la fine del mondo.

E per capire come il mondo e la società sia cambiata radicalmente negli ultimi 30 anni e perché servisse un nuovo strumento di azione politica è necessario che ci poniamo alcune domande fondamentali.

Come si compongono oggi i ceti che stanno sotto e come i ceti una volta dominanti sono stati scomposti e ricomposti dal turbo capitalismo finanziario?

Chi comanda oggi davvero nel mondo?

Cioè quando si parla di capitale oggi di cosa si parla? Di quello che dà vita alla economia reale, che dà lavoro e produce beni oppure ai capitali del mercato dell’azzardo finanziario che oggi sono in grado con un click su un computer di annichilire uno Stato nazione?

E nella nuova stratificazione sociale, quanto pesa la mobilità, la velocità a spostarsi di ceti, informazioni e beni? Cioè quanto è più povero e con meno potere chi non ha questa possibilità?

E la disuguaglianza cresce in maniera esponenziale laddove abbiamo insieme sia il Digital divide (il non utilizzo della informatica) che il Mobility divide (l’impossibilità a muoversi ed a viaggiare).

E allora domandiamoci se nelle analisi politiche e sociali che si fanno si tiene conto del fatto che rispetto al passato il capitale ha preso il volo, non è più territoriale, viaggia libero per il mondo, mentre il lavoro, la fatica, il dolore restano sul territorio senza la forza di condizionare quei poteri che spostano le risorse finanziarie da una parte all’altra del globo a loro piacimento?

Ed è a questo che penso quando sento autorevoli sindacalisti minacciare di occupare le fabbriche. E dopo? Un tempo il padrone stava dentro la fabbrica che come gli operai era anch’essa legata al territorio. Era la fabbrica fordista e se la si occupava il padrone doveva venire a patti perché non aveva alternative. Oggi se gli occupi la fabbrica gli fai un baffo. Un click e via. Agnelli aveva fisicamente l’ufficio al Lingotto, Marchionne ha il suo Ufficio in tutto il mondo, passa più tempo su un aereo che in ufficio.
E domandiamoci anche se la sinistra poi ha preso atto che la finanziarizzazione dell’economia ha messo in un angolo l’economia reale? E che un pezzo importante di quelli che vengono ancora definiti i padroni sono soltanto dei dipendenti stressati di quelle entità anonime che sono i famosi mercati finanziari?

Nessuno vuole far scomparire le differenze di classe, solo che se si continua a tracciare le linee di confine laddove eravamo abituate a tracciarle la sinistra va a sbattere e non riesce a trovare le necessarie alleanze sociali.

Che ci piaccia o no oggi i confini sono mobili. E non solo quelli tra gli Stati ma anche quelli tra gli individui.

E domandiamoci se la sinistra si è interrogata a sufficienza sulla estrema frammentazione sociale che il turbo capitalismo tecno nichilista ha prodotto negli ultimi 30 anni e da cui non c’è possibilità di tornare indietro. Ha capito che le vecchie categorie di azione, i vecchi paradigmi sono ormai ferri vecchi inutilizzabili?

E domandiamoci anche se siamo stati in grado di dare risposte convincenti agli interrogativi che l’ambientalismo più serio ha posto, risposte convincenti alla messa sotto accusa di un produttivismo inquinante in cui non si capisce se è più di sinistra la lotta delle popolazioni per chiudere subito aziende inquinanti e pericolose per la salute o è più di sinistra la salvaguardia del posto di lavoro di coloro che lavorano in quelle fabbriche (ricordo al proposito un profetico intervento del grande Vittorio Foa che tantissimi anni fa, c’era ancora il PCI, si poneva questa domanda a proposito dell’ACNA di Cengio).

E bisogna anche essere in grado di dare risposte al tema della biopolitica, al tema della messa al lavoro dell’essere umano nella sua interezza, non solo lo sfruttamento della forza del lavoro fisico ma il coinvolgimento nel processo produttivo anche dei nostri pensieri e della nostra vita.

3 - SPAZIO SOCIALE, SPAZIO FISICO, SPAZIO PUBBLICO

Non c’è dubbio che siamo di fronte ad una crisi strutturale del criterio Destra-Sinistra che è sempre stato un principio d’ordine e di orientamento dello spazio politico.

E la crisi nasce anche dal venir meno della coincidenza tra spazio sociale e spazio fisico.

Ed è quella che chiamiamo globalizzazione la causa di questo venir meno.

Essa è penetrata ed ha scavato nei livelli più profondi della spazialità, destabilizzandoli, rendendo liquido ciò che sembrava solido, incerto ciò che era certo, ambivalente ciò che si poneva come univoco.

Per approfondire questo aspetto è opportuno ed utile soffermarsi sul concetto di “spazio sociale”.

Lo spazio sociale ha una trama appunto sociale e non fisica, è un concetto antropocentrico (ha al centro l’uomo) e non geocentrico (non ha al suo centro i territori).

La trama che costituisce lo spazio sociale non è materiale – non è il territorio nella sua concretezza fisica – ma per l’appunto sociale: è formata dall’insieme delle interrelazioni umane rilevanti in una unità di tempo significativa.

Il tempo necessario per far che le persone agiscano di concerto, possano avere una relazione continua, allacciare una trama sociale dipende dalla distanza e dalla velocità con cui vengono trasportati i messaggi” o dalla velocità con cui si possono spostare persone e cose (dipende cioè dalle tecnologie disponibili in ogni dato momento storico)

Per centinaia di anni lo spazio fisico e lo spazio sociale sono stati sovrapposti.

Ma lo spazio sociale vive in un rapporto di simbiosi ed in diretta dipendenza con la tecnica, che ne detta estensione e intensità.

E’, si potrebbe dire, un prodotto tecnologico.

Lo conferma il fatto che tutte le rivoluzioni spaziali incorporano in se una più o meno esplicita strumentazione tecnica.

Si pensi ai grandi sistemi infrastrutturali di comunicazione, alla progressiva costruzione ed introduzione delle reti di dimensione nazionale: la rete stradale in primo luogo, poi la rete ferroviaria, postale, elettrica, telegrafica, telefonica, che resero disponibile il territorio, in ogni suo punto, ai messaggi ed agli interventi del potere centrale, in tempi via via più rapidi ed in misura via via più piena, e che ebbero il risultato rivoluzionario di ricodificare lo spazio sociale in “spazio “pubblico”, di far coincidere dentro i confini dello Stato nazione, spazio pubblico e spazio sociale o, se si preferisce, di porre lo spazio sociale come spazio pubblicamente costruito.

La rivoluzione tecnologica divenuta dominante al volger del millennio lavora direttamente sul fattore spazio-temporale.

E parliamo di quella rivoluzione tecnologica costituita da una doppia radicale innovazione e cioè dall’abbinamento incrociato di computer più comunicazioni satellitari da una parte e container più aerei cargo dall’altra.

Tutto questo ha prodotto una velocità di comunicazione senza precedenti con l’abbattimento radicale sia dei tempi che dei costi di trasporto a distanza di messaggi, oggettie persone.

Lo spazio sociale si è dilatato al di fuori dei suoi antichi confini.

L’accelerazione che viene impressa non è infatti una accelerazione normale. E’ per così dire una velocità assoluta. E la realizzazione tecnica della velocità assoluta produce uno sfondamento della spazialità moderna, ne determina un cambio di stato irreversibile.

Da solido che era lo spazio sociale diventa liquido (Bauman), da univoco diventa plurale (Beck), da spazio di luoghi diventa spazio di flussi (Castells).

Quindi l’insieme dei mezzi tecnici disponibili epoca per epoca per realizzare il trasferimento di messaggi, cose e personeè destinato a determinare, in via diretta, l’estensione e la densità dello spazio sociale.

Sembra un discorso astratto invece parliamo di cose concrete che interessano la vita di tutti i giorni.

Se nel 700 la lettera di un immigrato Norvegese a Filadelfia ci metteva 40 giorni per arrivare in Norvegia ed altrettanti per avere una risposta con la rivoluzione tecnologica di questi anni quegli 80 giorni sono diventati il tempo istantaneo di una e-mail e con la rivoluzione dei trasporti in giornata si può, volendo andare e tornare dalla Norvegia a Filadelfia. Per non parlare della possibilità di comunicazione che danno i cellulari.

Ed è evidente che in un simile contesto entrino in crisi i buoni vecchi criteri di organizzazione razionale della spazialità, “dentro e fuori” ma anche “qui e là”, “vicino e lontano”, “contiguo e separato”, “presente ed assente”, e da questa crisi non è esclusa, la fino ad oggi stabile, distinzione Destra/Sinistra.

Manuel Castells, nella sua monumentale opera sulla Network Society, contrappone il sempre più invasivo “spazio dei flussi” al tradizionale “spazio dei luoghi”.

Castells ci mostra come la diffusione su scala planetaria del comando a distanza e il suo essere ormai pervasivo in tanti ambiti della nostra esistenza ELIMINI il vincolo della contiguità fisica.

Poiché OGGI è diventato possibile produrre su ampia scala simultaneità in assenza di contiguità(intesa come compresenza nel medesimo luogo), la struttura stessa dello spazio sociale VIENE MODIFICATA da spazio dei luoghi in spazio dei flussi (oggi di una automobile la scocca viene realizzata in Italia, le gomme negli USA, il motore in Polonia ed il tutto viene assemblato in Brasile).

Le conseguenze di tutto ciò su quel particolare aspetto della vita collettiva contemporanea che è la sfera pubblica sono evidenti.

La bella unità tra spazio pubblico, spazio fisico e spazio sociale nel contesto unitario e ben definito della spazialità nazionale che aveva caratterizzato la lunga parabola della statualità moderna è infranta.

Lo Stato nazionale entra in crisi e viene fatto esplodere nella totalità indifferenziata dello spazio globale dove conta sempre di meno.

La spazialità pubblica invece implode e si scompone negli infiniti frammenti spazio-temporali in cui è stato risucchiato lo spazio sociale.

Nell’epoca dell’azione a distanza sistematizzata, possesso e presenza si separano (le prerogative del padrone sono esercitate in absentia, così che il potere appare del tutto astratto, privo di corpo e di soggetto).

La logica che legittima i decisori appartiene a un mondo vitale del tutto diverso da quello in cui si collocano coloro che ne subiranno le conseguenze e del tutto sottratto al loro controllo (e addirittura alla loro vista).

4 - LA CRISI DEL POLITICO

In questa esplosione della sfera pubblica i tradizionali criteri di orientamento spaziale (tra cui come abbiamo già detto la stessa distinzione tra destra e sinistra), criteri validi nello spazio piano e continuo, non frammentato, del moderno non cessano di operare, ma perdono il proprio carattere ordinatore del discorso Politico.

Riproducono sempre più spesso deformazioni o illusioni ottiche, depistaggi e disorientamenti.

Continuano a fornire nomi e qualificazioni alle forme di un politico sempre più informe, ma ad essi sempre meno corrisponde un oggetto identificabile o meglio una identità.

E d’altra parte in un mondo nel quale le domande, fino a ieri semplicissime, (chi sei? E dove stai?) sono diventate improponibili, come pensare che la dimensione identitaria possa continuare a dare ordini al discorso collettivo?

In un contesto in cui nessuno sa più dove è (e dunque cosa è) in quanto persona, come sperare che lo sappiano i soggetti politici in quanto identità collettive?

Domande dure ma dalle quali non si sfugge.

A franare è la politica come l’avevamo conosciuta fino a ieri, non solo con i propri soggetti e con i propri valori, ma con le sue forme, le sue istituzioni, i suoi principi costitutivi, i suoi codici di legittimazione, i suoi modelli di relazione, insomma con tutto ciò che costituisce il moderno concetto di politico.

E la frana rischia di tirarsi dietro anche le più recenti conquiste che hanno caratterizzato la modernità compiuta: la democrazia rappresentativa, l’universalità dei diritti e la sua efficacia, il principio di legalità come condizione di legittimazione del potere.

La crisi odierna della politica, la sua difficoltà ad essere vista per quella che da sempre essa è e cioè lo strumento che gli esseri umani hanno per regolare e rendere positiva la loro convivenza (senza la politica si hanno le guerre tribali), il suo non appassionare più soprattutto le giovani generazioni ha molto a che vedere con l’incapacità della Politica di vedere i nuovi paradigmi e le nuove realtà.

In sostanza e semplificando al massimo, fino ad un certo periodo della storia dell'Occidente la "storia" veniva fatta dentro i confini degli stati nazionalisia dal punto di vista economico che dal punto di vista politico. Globale era semmai la difesa anche se divisa in 2 grandi blocchi.

Questo in pratica significava che il cittadino italiano, francese, inglese o americano si poteva rivolgere ai poteri nazionali, ai politici o agli imprenditori, e questi avevano al tempo tutti gli strumenti per risolvere i problemi che venivano loro posti.

La Politica era perciò avvertita come una cosa utile,che sapeva e, soprattutto, poteva affrontare i problemi. E così, di fronte alle richieste dei sindacati, gli imprenditori avevano ancora l'autonomia di dire sì o no.

E quando la politica o gli imprenditori dicevano no, ci si organizzava, si lottava, si provava a cambiare i rapporti di forza e si sapeva che in quel Palazzo della Politica o in quella palazzina della Direzione aziendale c'erano tutti gli strumenti per decidere.

E spesso si trovavano compromessi dignitosi.

Oggi quel quadro è completamente sottosopra.

Ci sono la Politica, lo Stato, gli Imprenditori, i Partiti, ma i cittadini in Italia, in Francia, in Inghilterra, negli Usa avvertono che quei soggetti non hanno più la possibilitàdi decidere della loro vita e hanno perso gli strumenti per risolvere i loro problemi.

E questo perché 30 anni di globalizzazione (cosa in se positiva) e 30 anni di liberismo (cosa negativa) hanno trasferito i poteri economici in territori transnazionali, i poteri sono diventati extraterritoriali e la vecchia politica si trova spiazzata e disarmata.

La politica quindi appare sempre più lontana dalla gente, non perché ci sono i Belsito ed i Lusi (in altre epoche quando la politica poteva risolvere i problemi Belsito e Lusi sarebbero stati solo un problema di codice penale), non perché c'è una casta insaziabile (che sicuramente c'è anche se io non generalizzerei), la politica appare lontana perchénon decide più nulla ed a decidere sono i "mercati", entità indistinte che decidendo di comprare o meno i titoli emessi da questo o quello Stato possono mettere in ginocchio un paese intero.

I cambiamenti di cui parliamo sempre hanno investito anche quel moloch istituzionale costruito in centinaia di anni e cioè lo Stato nazione.

Esso ormai è enormemente indebolito ed è solo un simulacro della potenza di un tempo.

La globalizzazione finanziaria, la transnazionalità dei poteri economici, l’extraterritorialità delle élite hanno tolto agli Stati nazione ogni possibilità di decidere sui propri destini.

E spesso la Politica è rimasta ai tempi della potenza dello Stato nazione e rischia di fare la guardia ad un bidone vuoto.

Ormai tornare indietro dall’aver trasformato l’intero globo in un unico mercato con sempre meno barriere alla circolazione di capitali, merci e persone è impossibile e forse non sarebbe nemmeno giusto.

La politica dovrebbe portarsi a questo nuovo livello, sostituendo gli Stati deboli territoriali con qualche autorità globale, legislativa e di polizia. E questa sarebbe l’unica scelta che potrebbe mitigare e ricondurre nei giusti alvei democratici gli istinti selvaggi dei mercati finanziari.

Come ci spiega ad ogni piè sospinto Zygmunt Bauman la frammentazione politica e i mercati finanziari senza regole sono strettamente intrecciati, la prima serve ai secondi.

Come siano cambiati i modi di divedere le cose della Politica lo capiamo meglio con un paradosso (a cui ci ha richiamato più volte Mario Tronti).

Nella sua storia la sinistra ha sempre guardato con ostilità allo Stato, agli albori della sua teoria si parlò addirittura di abolizione dello Stato e certa gruppettistica aveva addirittura coniato lo slogan “lo Stato si abbatte e non si cambia”.

Oggi, e qui sta il paradosso, a cavalcare la parola d’ordine dell’abbattimento dello Stato sono i poteri finanziari globali, quelli che in estrema sintesi chiamiamo i mercati e che vedono nella forza dello Stato un intralcio alla loro libertà assoluta di movimento.

D’altro canto anche il rafforzamento dei poteri decidenti (penso alle riforme Costituzionali italiane ed alla stessa legge elettorale) fa parte della strategia della Politica per riconquistare la sua legittimità e porsi almeno allo stesso livello dei mercati globali.

5 -CHI STA IN ALTO E CHI STA IN BASSO, RICCHEZZA E POVERTA’.

Abbiamo visto i cambiamenti che hanno investito la formazione economica globale, la dimensione dello spazio sociale, la declassificazione dello spazio pubblico e cioè degli Stati e della Politica.

Un accenno adesso a come è cambiato il rapporto tra chi sta in alto e chi sta in basso, tra i ricchi ed i poveri.

Un tempo, all’epoca del capitalismo fordista e della società solida radicata nei territori, i vecchi ricchi avevano bisogno dei poveri per diventare e restare ricchi. Dentro una fabbrica fordista, ad esempio, il datore di lavoro, per arricchirsi, aveva bisogno dei suoi operai, di quegli operai.

E questa dipendenza portava a risolvere i conflitti, a mitigare i conflitti di interesse ed a prendersi cura degli altri.

Oggi, nella nostra contemporaneità, la creazione della ricchezza sta per emanciparsi dalle sue eterne connessioni – vincolanti ed irritanti – con la produzione, l'elaborazione dei materiali, la creazione d i posti di lavoro, la direzione di altre persone.

La liberalizzazione degli spostamenti di capitali, la costituzione di un mercato unico mondiale, la rapidità degli spostamenti delle merci e delle persone (oltre che dei capitali) hanno sradicato la ricchezza dai loro territori.

Il ricatto della delocalizzazione produttiva in zone dove il capitale viene trattato meglio, dove si pagano meno tasse, dove non vigono i diritti sindacali, dove non ci sono tutele toglie ogni potere alle organizzazioni sindacali e rischia di rendere inutili le lotte che si svolgono sui territori.

PERCHE’, COME CI DICE SEMPRE BAUMAN, I NUOVI RICCHI NON HANNO PIU' BISOGNO DEI POVERI.

E riflettete cosa può significare per la politica ma anche per il sindacato questo cambiamento epocale.

6 -DOMANDE

Voglio concludere ponendo alcune domande fondamentali senza rispondere alle quali sarà difficile far tornare al centro lo “spazio pubblico”

Avessi le risposte mi chiamerei Carlo Marx o Max Weber e non Enzo Puro.

Ma c’è da augurarsi che il PD, mettendo in campo una grande intelligenza collettiva, sappia trovare le risposte giuste.

Domanda numero 1 Aldo Bonomi: Come è stato possibile che chi sapeva tutto della fabbrica, della catena di montaggio, del rapporto fabbrica territorio negli anni settanta ed ottanta, ad un certo punto si sia trovato completamente spiazzato di fronte al cambiamento?

E se la sinistra non si è più raccapezzata di fronte ai cambiamenti della struttura produttiva come poteva raccapezzarsi e comprendere i moderni fenomeni di frammentazione dei rapporti sociali e di deperimento dell’antico sistema delle relazioni sociali dentro un territorio, frammentazione e deperimento avvenuti sotto i colpi violenti delle ricadute locali dei fenomeni di globalizzazione che producono stress, spaesamento, anomia?

Domanda numero 2, Ernst Laclau:

Fino a pochi anni fa le teorie classiche dell'emancipazione hanno postulato l'omogeneità degli agenti sociali da emancipare (a sinistra si credeva che la classe operaia liberando se stessa liberasse tutta l’umanità).

Oggi al contrario tendiamo a parlare di emancipazioni al plurale, abbiamo di fronte a noi una fortissima diversità tra le domande sociali. Non c’è più (forse non c’è mai stato) un soggetto unico che è il motore del progresso.

E sulla base di questo la domanda da porsi è: Quale nozione dell'agire sociale (cioè con parole nostre quale forma partito, quale azione sociale o di governo), è compatibile con questo cambiamento?

Domanda numero 3, Alain Baidou:E' possibile un soggetto politico di sinistra quando proliferano esigenze di frammentazione e di chiusura nelle proprie identità?

Una persona oggi è come un prisma dalle diverse facce, pensate ad un essere umano che contemporaneamente, ad esempio, è operaia, è donna, è madre ed è lesbica. Un tempo non era così ma oggi ognuno di questi status esprime una forte soggettività autonoma. Come è pensabile un soggetto politico universale, un partito di sinistra, che rappresenti le differenze contingenti e centrifughe, i numerosi frammenti della società e le diverse identità che rendono impossibili quella sintesi dialettica che veniva praticata però quando tutto il panorama sociale era più semplice e leggibile (e che i più anziani di noi ricordano con nostalgia e rimpianto senza rendersi conto che quella sintesi è oggi materialmente impossibile)?

Domanda numero 4, Marco Revelli: Di fronte alla crisi del paradigma classico della Sinistra e della Destra quando nascerà un nuovo “paradigma politico” capace – come fece il paradigma politico dei moderni nei confronti di quello degli antichi più di 3 secoli or sono – di riempire il vuoto provocato da quella crisi?

E attraverso quali protagonisti (soggetti sociali, culture, identità)?

E quali forme assumerà?

Dove si deve collocare la sinistra nell'Europa della complessità sociale, della dissoluzione dei soggetti forti – classe operaia in primo luogo – dei movimenti post industriali e post materialistici, nell'Europa universo del consumo e del superfluo dove niente è più vero perché tutto si può compare e vendere?

Domanda numero 5: Alex Langer:In un mondo in cui passato e futuro cessano di costituire i momenti separati di una temporalità processuale per annientarsi nella presenzialità dell'istante, come possono continuare a sussistere in quanto identità stabili e separate le tradizionali strutture d'appartenenza identificate dalla destra e dalla sinistra?

E se oggi tutto è presente come possono esistere cioè identità collettive (Partiti, Sindacati, etc.) che si sono costituite ed erano pienamente percepibili solo in un tempo in cui la durata era ancora concepibile e in cui esisteva una qualche forma sia pur estenuata e ristretta di tradizione?

E' di sinistra l'insistenza per lo sviluppo (industrialismo, espansione, crescita del prodotto nazionale lordo) e magari di destra la deindustrializzazione?

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE:

Manuel Castells. “L’età della informazione. Economia, società, cultura” 3 volumi. Edizioni Bocconi

Zygmunt Bauman. “Modernità liquida” Edizioni Laterza

Zygmunt BAuman “La società individualizzata. Come cambia la nostra esperienza” Edizioni il Mulino

Ukrich Beck. “La società del rischio. Verso una seconda modernità” Editore Carocci

Alaine Touraine. “Libertà uguaglianza diversità”. Edizioni Carocci

Marco Revelli. “Sinistra Destra. L’identità smarrita”. Edizioni Laterza

Marco Revelli. “Oltre il Novecento. La politica, le ideologie e le insidie del lavoro”. Edizioni Einaudi

Aldo Bonomi “Sotto la pelle dello Stato. Rancore, cura, operosità” Edizioni Feltrinelli

Mauro Magatti . “Libertà immaginaria. Le illusioni del capitalismo tecno nichilista” Edizioni Feltrinelli

120 Dati social all'8 febbraio 2016


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Aggiornato al 31 marzo 2018

 

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