Cosa rischia di limitare fortemente l’iniziativa del PD malgrado la forte spinta innovativa impressa da Renzi?

Una analisi molto pungente sui retropensieri di molta classe dirigente a tutti i livelli del PD che considera l’innovazione certamente un campo che siamo costretti a praticare ma che non è il nostro. Un atteggiamento che ci rende incerti di noi stessi a fronte delle certezze semplificatorie dei populisti. In pratica la soluzione innovativa non è vissuta da noi come componente essenziale di una offensiva riformista

Letto 4303
Cosa rischia di limitare fortemente l’iniziativa del PD malgrado la forte spinta innovativa impressa da Renzi?

Una scuola di politica è fondamentale per rinnovare la cultura politica del Pd. Solo con la formazione dei propri dirigenti è possibile, infatti, affrontare quei problemi di cultura politica che limitano fortemente l'iniziativa del partito. Si tratta di mettere in discussione quell’insieme di ideologie e credenze, di visioni del mondo, di giudizi e pregiudizi che si sono sedimentati nel tempo e che frenano l'iniziativa innovatrice del Pd.

Perché bisogna sottoporci a questo sforzo culturale? Dobbiamo farlo perché è necessario liberarci di un'idea sbagliata: ritenere che ogni rottura di continuità con l’ideologia e la prassi del passato – in particolare, quelle adottate nella fase dei cosiddetti “trenta gloriosi” -, sia un cedimento all’avversario, una sorta di tradimento, un avventurarsi in un campo che siamo costretti a praticare, ma che non è il nostro.

Questo atteggiamento di tipo “ideologico” ci rende incerti di noi stessi, ci indebolisce fortemente a fronte della “certezza” semplificatoria dei populisti. Col risultato che finiamo per concedere loro un enorme vantaggio.

Alcuni esempi concreti ci aiutano a comprendere questo punto. A domanda, i populisti rispondono prontamente:

D - Abbiamo problemi di competitività?

R - E' semplice: usciamo dall’euro, svalutiamo e recuperiamo competitività di prezzo.

D - C’è crescente povertà, assoluta e relativa?

R - E' semplice: diamo un reddito a tutti.

D - I cinesi coi loro prodotti invadono i nostri mercati?

R - E' semplice: mettiamo dei dazi.

D - Il debito pubblico ci soffoca?

R - E' semplice: ristrutturiamolo, cioè paghiamolo solo in parte.

D - Abbiamo troppi immigrati?

R - E' semplice: eleviamo un bel muro…

Sul nostro versante, avviene tutto all’opposto. Anche quando facciamo scelte che – alla prova dei fatti – si rivelano giuste. Un esempio basterà per tutti: le regole del mercato del lavoro e il sistema delle tutele dei lavoratori.

Per anni abbiamo sostenuto l’esigenza di una riforma del sistema costruito nella fase fordista dello sviluppo industriale, allo scopo di favorire la crescita dell’occupazione e di comprendere nelle tutele lavoratori che altrimenti ne restavano esclusi, a causa del rigido dualismo del mondo del lavoro.

Quando - con il governo Renzi - si sono create le condizioni per la svolta anche su questa politica, il Parlamento ha approvato il Jobs Act, che punta al superamento del dualismo e si propone di far tornare il contratto di lavoro a tempo indeterminato ad essere largamente prevalente – anche perché meno costoso – tra i diversi tipi di contratto di lavoro.

Nel tempo trascorso da allora ad oggi, si è sviluppata una demenziale guerra di comunicati sui dati mensili e trimestrali di INPS, ISTAT e Ministero del Lavoro, che – nella versione benevola – ha fatto concludere ai più che le nuove regole non hanno ottenuto alcun effetto concreto, mentre la decontribuzione – quella sì – ha ottenuto effetti. Ma quella ora non c’è più. Quindi, alla fine, tanta agitazione per nulla.

Poi il 4 luglio 2017 arriva la Relazione annuale dell’INPS al Parlamento che ci informa di un dato impressionante: nel 2014 (prima del Jobs Act), il numero di aziende che mensilmente superava la soglia dei 15 addetti (art. 18) era di 8.000. Nel 2016, è stato di 12.000 aziende ogni mese. Qui la decontribuzione non c’entra nulla (era identica, per ogni neo assunto, sotto e sopra la soglia).

Questi dati dimostrano con ogni evidenza che la vecchia regolazione ostacolava la crescita delle imprese, spingendole a non superare la soglia.

Dunque, c'è un argomento formidabile a nostro favore, fondato su di un dato di fatto, ineccepibile. Perché non lo usiamo nel confronto politico coi nostri avversari, nel dialogo con i cittadini?

Non lo facciamo perché non sappiamo comunicare? No. Perché ci siamo convinti, ad un certo punto, di cambiare la nostra antica posizione, ma l’abbiamo fatto come costretti, per necessità, non per convinzione.

La soluzione innovativa non è pensata e vissuta da noi come essenziale componente di una offensiva riformista. Ma come parte di una tattica di difesa. Se potessimo, non cambieremmo, e continueremmo a fare come abbiamo sempre fatto. Ma, poiché non possiamo, acconsentiamo al mutamento di indirizzo. Non perché è un bene. Ma perché è il male minore.

Si potrebbero fare altri esempi. C'è solo l'imbarazzo della scelta. Ma è proprio questo limite di cultura politica che spiega la nostra insicurezza, la nostra difficoltà a reagire al messaggio semplicistico dei populisti sia sul terreno della riforma istituzionale (la democrazia decidente è roba più degli altri che nostra); sia sul terreno della riforma delle istituzioni economiche fondamentali (la contrattazione di secondo livello, per premiare la produttività? Mah… noi siamo quelli che guardano agli ultimi, quindi, per noi, meglio restare alla contrattazione nazionale); sia sul terreno delle politiche per l’innalzamento del capitale umano (più autonomia ad ogni comunità nella gestione della scuola? Facciamo qualcosa, ma senza esagerare, ché poi al Sud chissà che succede…).

Con la nascita del PD, abbiamo operato una esplicita rottura di continuità col passato. Ma, negli anni successivi, non abbiamo lavorato in profondità, realtà per realtà, al mutamento radicale di cultura politica che era essenziale all’effettiva costruzione di un grande partito riformista a vocazione maggioritaria.

Dobbiamo recuperare questo ritardo, perché è in atto una robusta offensiva per dimostrare che l’Italia non è fatta per bruschi cambiamenti. E che è meglio tornare dove eravamo. Solo il Pd può riaccendere la speranza nel futuro.

Letto 4303

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Alfonso Pascale

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Aggiornato al 31 marzo 2018

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