Dove si è smarrita l’anima di Mauro?

Ad essere stanco è lei, Ezio Mauro, figlio di un mondo perduto. Gli elettori del PD con la guida di Renzi non sono forse mai stati così entusiasti

Letto 8048
Dove si è smarrita l’anima di Mauro?

“Le vittorie sono merito di tutta la comunità, le sconfitte vanno sempre riconosciute e addebitate a me”. Questa dichiarazione di Renzi è oggetto di una delle diverse amnesie che colpiscono Ezio Mauro nel suo “j’accuse” contro di lui. Peccato che anche grazie a dichiarazioni come questa, per l’innovazione che esprime, Renzi sia riuscito a creare una comunità viva e a infonderle un entusiasmo che il centrosinistra non aveva mai conosciuto con tanta forza, rivitalizzando e ampliando il suo elettorato, che Bersani gli aveva consegnato ridotto a un misero 25 % proprio nel momento in cui deflagrava il berlusconismo. Quindi è entrato con deferenza nel riformismo europeo, riportandogli il dono di Blair (ma anche di Schoereder) che aveva smarrito: la cultura liberale.

Ecco perché ad essere stanca è semmai la sua anima, dottor Mauro, sequestrata da un’idea di sinistra che si basa su una conformazione della società che non esiste più. Non ce n’è uno dei suoi punti di riferimento che non sia stato azzerato: la divisione in classi sociali si è tramutata in un insieme caotico e sgrammaticato di individui; la grande industria nazionale è stata rimpiazzata da una miriade di piccole imprese (e chi ne è a capo non è più un privilegiato rispetto ai propri operai, anzi è come loro bisognoso di tutele da parte dello stato, perché deve competere in un mercato sempre più aggressivo ed esteso oltre i confini nazionali, come dimostrano i numerosi imprenditori suicidatasi); uno sconquasso globale è stato generato da una finanza nuova e pervasiva e dalle multinazionali, sulle cui politiche contrattuali le possibilità di intervento del singolo stato che ne “ospita” una parte sono limitate se non nulle (quindi le vecchie ricette della sinistra diventano inutili o controproducenti); i corpi intermedi tradizionali (a cominciare dai sindacati) non sono rappresentative ormai che di minoranze privilegiate e corporative.

La sua anima è confinata in quel mondo perduto, mentre il suo corpo, sfortunatamente, giace nel presente, che si sforza con difficoltà di capire. Ora, la missione di Renzi è cambiare il paese, farlo crescere sul piano economico e civile: è un politico che governa, non un ideologo o un intellettuale. Il partito che eredita ha già un’identità, altrimenti non lo sta ereditando ma fondando: dalle sue azioni di governo e dalle sue proposte per innovare il paese l’identità del partito riceve un aggiornamento o una trasformazione, se almeno in parte hanno successo. E così che ha fatto Blair, il quale non si è rinchiuso in una stanzetta a scrivere un trattato sulla identità da dare al suo partito (come fecero ai primi del 900 i fondatori delle due forze ancora oggi, nonostante la crisi che attraversano, egemoni in Europa), ma ha presentato un programma di governo, che quando ha vinto le elezioni ha provato a realizzare, poi si è fatto da parte. Lo stesso percorso sta seguendo Renzi.

Esprimere dubbi sul legame fra Renzi e il riformismo europeo suscita stupore o ilarità in tutto l’occidente, tranne che in Italia: lei per primo dovrebbe interrogarsi su questo gap, a meno che non pensi che solo in Italia si sappia cosa sia il riformismo e dalle democrazie più avanzate del mondo dovrebbero correre qui a farsi delucidare in merito, magari da lei. Proprio l’ottimismo è un tassello fondamentale del DNA di un leader riformista, di cui lei sembra avere smarrito la nozione: non odiosa propaganda, quindi, ma un messaggio costante di speranza nelle possibilità del proprio paese, che non nasconde ma semmai mette in risalto i tanti problemi da risolvere.

Gli altri aspetti su cui la leadership di Renzi è deficitaria nel suo “j’accuse”, radicamento del partito sul territorio e creazione di una nuova classe politica, sono più complessi. Per l’ennesima volta lei rimprovera a Renzi la “rottamazione” della vecchia classe dirigente, ossia uno dei motivi del suo successo: sconfessarla per Renzi non costituirebbe una stupidaggine, ma una mutilazione della propria identità politica.

Sorprende che un giornalista navigato come lei non se ne sia ancora reso conto; sorprende ancora di più che non si accorga dell’imbarazzante controsenso in cui va a impantanarsi con l’altra accusa che rivolge a Renzi: non ha mai pensato a creare una classe politica nuova. Il guaio è che Renzi questa classe politica, almeno in parte, avrebbe dovuto ereditarla dai vecchi dirigenti: essi avrebbero dovuto attuare dei meccanismi meritocratici volti a far emergere e a formare le nuove leve, che avrebbero rimpiazzato quelle vecchie via via che le proprie carriere politiche andavano esaurendosi. Invece hanno sempre seguito le sciagurate logiche della cooptazione, consegnando a Renzi una classe politica nel complesso modesta. E questo è solo uno dei loro tanti tragici errori: la loro “rottamazione” è stata una scelta vincente e necessaria proprio perché il loro fallimento è quasi integrale, a cominciare dalla “gioiosa macchina da guerra” di Occhetto, passando per il sabotaggio della leadership di Prodi e poi di Veltroni, fino alla non vittoria di Bersani.

Un golgota di guerre fratricide, da disgustare il più disincantato dei sostenitori, una eterna faida di potere rinascimentale dove al veleno, al pugnale, allo strangolamento sono subentrati miserabili tranelli da perfide comari, che lo storico cospiratore sta per l’ennesima volta mettendo in atto contro Renzi (come denuncia proprio il suo giornale).

Perché lei si ostina a ignorare queste vergogne? Quali meriti riconosce a quei dirigenti che Renzi gli nega? Lui ha sempre detto con chiarezza cosa salva di quella storia: il primo governo Prodi e il progetto ulivista (come incubatore del futuro PD), entrambi boicottati dalla sinistra radicale e dal cospiratore, ora di nuovo al lavoro; la vocazione maggioritaria e il discorso del Lingotto di Veltroni; la grande stagione dei sindaci prima ulivisti e poi arancioni. Tutto il resto non merita altro che un pietosissimo miserere. Lei oltretutto confonde il patrimonio culturale e civile, consegnato a Renzi appena eletto leader del PD, con la storia delle singole personalità che costituivano la sua classe dirigente. Renzi ha un debito verso quel patrimonio, non verso i suoi predecessori che l’hanno tradito, fallendo.

Il “partito della nazione” le fa temere che quel patrimonio Renzi al suo successore lo consegni non arricchito ma mutilato? Provo a tranquillizzarla: era un riferimento a uno scritto di Reichlin sul profilo identitario del partito (vede gli scherzi del caso?). Talk-show e becera stampa si sono precipitati a spacciarlo per il progetto di inglobare la destra di Verdini nel PD, ignorando le ripetute, esasperate, categoriche smentite di Renzi. Certo, ai suoi nemici non sarà parso vero di trovare un perno così solido attorno a cui costruire lo storytelling contro di lui. Lei ha qualche motivo per alimentare questo storytelling o crede che Renzi sia un cretino?

Il giudizio sul ventennio berlusconiano Renzi lo ha espresso fino alla noia: un totale fallimento. Cosa non le è chiaro di queste parole? Forse è l’aggettivo “totale” che la infastidisce tanto, perché coinvolge tutta la società italiana: il centrosinistra che lo avversava (senza successo), l’industria, i sindacati, la stampa… O forse lei pensa che un disastro di questa portata sia imputabile a un solo uomo e al suo seguito? Ecco il nocciolo della questione: lei in questo ventennio ha diretto il giornale che io (e credo di interpretare bene o male il pensiero di tutti i militanti del PD) considero la migliore “industria culturale” del nostro paese. Proprio in virtù di questo merito, anche nel caso in cui sia sovradimensionato, non pensa di avere anche lei una responsabilità sul declino dell’Italia? Se lo è mai chiesto?

Letto 8048

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Fabio Greco

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Aggiornato al 31 marzo 2018

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