Il rumore di niente

Libero Grassi

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Il rumore di niente

Secondo alcuni, Libero Grassi è come un sito archeologico. Da ammirare, quasi accattivante. Ma ormai passato. Fermo lì nei filmati di repertorio. A incarnare il corroso rapporto tra etica e imprenditoria. A parlare di dignità. Di libertà. Insomma ancora valido, archeologicamente. E ci fanno anche una fiction. Che va in prima serata.

Per i non cultori di archeologia, ci sono anche i nomi e cognomi dei tanti imprenditori più volte oggetto di azioni intimidatorie e gravi danneggiamenti. Come Tiberio Bentivoglio, che riapre dopo sole due settimane dall’incendio del suo negozio di Reggio Calabria. A pochi chilometri c’è Gaetano Saffioti, che offre gli escavatori e le pale meccaniche della sua azienda di Palmi per le zone colpite dal terremoto. Sono le stesse pale ed escavatori che da anni Gaetano spinge avanti inesorabilmente contro il vento della ndrangheta. Nel ragusano invece, Maurizio Ciaculli è stato omaggiato di un mazzo di fiori: li ha trovati una settimana fa accanto alla sua auto incendiata. Un anno fa Ciaculli ha subito l’incendio del capannone della sua azienda di lavorazione di prodotti agricoli. Mille metri quadri e tanti anni di fatica andati in fumo.

Con le intimidazioni incendiarie era fisiologico che ci scappasse, non sempre accidentalmente, il morto. L’elenco è lunghissimo e, in parte , di competenza degli archeologi. Il morto è sempre meno famoso di Libero Grassi. Anche quando non è uno solo, ma diventa una vera strage. Come a Maletto, nel catanese, il 2 luglio 1991, due mesi prima che uccidessero Libero Grassi: viene dato fuoco alla macelleria di Salvatore Caserta nella centralissima via Umberto I. Ma l’incendio e l’ossido di carbonio si propagano al piano sovrastante dove abita la famiglia Sanfilippo, uccidendo Maria e i suoi due figli Claudio, di 8 anni e Simona, di 9 mesi. Per puro caso si salvano Vincenzo Sanfilippo e gli altri quattro figli. L’attentatore, che rimane mutilato dall’esplosione, era legato al clan dei Laudani. Tutto in nome del pizzo, della “messa a posto” come viene chiamata nel palermitano. Dello “stipendio”, come lo chiamano i mafiosi catanesi. Già proprio stipendio, l’essenza della stabilità. Non solo del pagamento, ma del presunto sistema.

In quell’estate 1991 Libero Grassi merita l’attenzione nientemeno che della cupola di Cosa Nostra, che ne decreta la condanna a morte. Era colpevole non solo di non essersi piegato al racket, ma, soprattutto, di aver sfidato la mafia in campo aperto. Con una folgorante lettera all’estortore, pubblicata sul Giornale di Sicilia e in una mirabile intervista RAI, in cui Michele Santoro, provocatoriamente, gli chiede se sia, per caso, un pazzo. Dopo le parole di Libero Grassi, Cosa Nostra, come rivela il pentito Giovanni Brusca, rischiava un pericoloso contagio: la ribellione contro il pizzo. Che è il respiro delle organizzazioni criminali, la loro base economica più o meno percepibile sul territorio e, quindi, il termometro del consenso.

Il pizzo non è solo il costo della paura, da accludere ai costi d’azienda. E’ quella soffice coltre di finta protezione che si materializza al prezzo di contributi periodici, forniture pilotate, merce non pagata, assunzioni forzose, messaggi in forma di rapina. E che cerca di azzerare tutto. Senza fare baccano. Che in inglese si traduce anche “racket”. Perché, in fondo, se pagassero tutti non pagherebbe nessuno. E quasi nessuno, infatti, ne parla.

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Ernesto Consolo

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Aggiornato al 31 marzo 2018

 

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