Che vuol dire periferie?

Basta con la vecchia retorica sulle periferie. L’articolo svolge una analisi originale sul perché a Roma, la sinistra sprofonda elettoralmente nelle periferie. Non è l’assenza di contatto la causa. Ma l’approccio al problema. Non basta andare nelle periferie se non si cambia il linguaggio. Parliamo con gli stessi approcci e argomenti di venti o trenta anni fa. Siamo noi gli stranieri.

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Che vuol dire periferie?

Mettetevi comodi, scrivo di Roma, ma non solo.

La Capitale è in decadenza, la Raggi non regge e Salvini ha messo gli occhi sulla città. Il rischio è grande, anche se le europee hanno dato un segnale importante. Il PD è tornato ad essere il primo partito a Roma con un distacco di 5 punti dalla Lega, che, tuttavia, ha una importante affermazione in periferia.

Prepariamoci a sentire le solite ovvietà sulla necessità di tornare nelle periferie a parlare con la gente. In questo modo, al rischio dell’arrivo della Lega “padrona”, aggiungeremmo quello di confondere la nostra voce con quella degli altri che, con diverse sfumature, proporranno la nuova retorica della rigenerazione, intesa solo come sinonimo più moderno del vecchio risanamento. Magari con qualche svolazzo intellettualistico che ormai individua le periferie anche al centro della città, sdrucciolando malinconicamente fino alla poetica delle periferie umane, quelle della solitudine dell’anima. Ma basta!

I primi dati di una interessante ricerca svolta dall’Università di Roma 3 (prof. Giovanni Caudo), intitolata “Roma Regione Capitale”, misurano gli effetti concreti dei cambiamenti, soprattutto socioeconomici, che si sono prodotti in modo spontaneo nella relazione tra Roma e il suo territorio circostante.

Già negli anni precedenti altri studi si erano cimentati sul tema, ma il merito di questa ricerca, oltre che fornirci dati aggiornati, è di rivelare dimensioni e suggerire significati nuovi alle trasformazioni economiche, fisiche e di conseguenza sociali di Roma.

Per arrivare ad una rappresentazione più realistica degli stessi confini fisici della sua area di influenza diretta, non più contenuti nei perimetri dei diversi livelli istituzionali attuali, ma ridisegnati dagli effetti concreti di questa relazione.

Un perimetro, quello più generale, che travalica perfino quello regionale per affermare una nuova entità multiregionale.

Secondo questo studio l’influenza socioeconomica diretta di Roma si estende, positivamente, oltre la città metropolitana e la stessa regione Lazio influenzando fortemente la vita di una parte assai consistente dell’Italia centrale della quale la Regione Capitale di Roma è un motore di crescita secondo, di non molto, solo a Milano. Ma non è su questo, che uso solo come prova della validità di quello che penso, che voglio soffermarmi qui.

La questione che mi interessa è quella che mi fa dire, da tempo e non da solo, che l’assenza di contatto del PD con le periferie non è la causa della sua perdita elettorale in quei luoghi, ma l’effetto di una incomprensione culturale, prima che politica, del partito riguardo alle trasformazioni subite da quei luoghi e da chi li abita, ai quali abbiamo continuato a parlare un linguaggio divenuto loro via via più incomprensibile, fino ad essere percepiti come estranei. Parliamo con gli stessi approcci e argomenti di venti o trenta anni fa. Siamo noi gli stranieri.

Continuiamo a pensare alle periferie come luoghi abbandonati al degrado, che si aggraverebbe più ci si allontana dal centro, unico luogo-termine di paragone, l’altro soggetto di un dialogo tra due grandi componenti della città, centro e periferie, appunto. Non è più così. Da molti anni, per giunta.

Le periferie di Roma non sono una sequenza di luoghi statici nel degrado, ma una corona, che si estende al di qua e al di là del GRA, ricca di nuove e grandi opportunità di crescita economica e sociale già in atto spontaneamente da tempo. Nel decennio della crisi, dal 2008 al 2018, sono nate a Roma 78.000 nuove imprese che occupano 200.000 lavoratori, la quasi totalità delle quali sono localizzate nei punti strategici di quella corona che guarda soprattutto fuori dal GRA in un raggio di 50/100 km.

Gli insediamenti periferici non sono luoghi di confino dei “dannati della terra”, ai quali portare infrastrutture e servizi per obbligo civico, ma luoghi da ripensare e programmare come il CENTRO di una nuova Roma, Capitale della sua più vasta zona di influenza socioeconomica. Che già esiste, lavora, produce ricchezza, ma tutto questo in modo spontaneo, non ordinato secondo una strategia di sviluppo e sfuggendo, fino ad ora, all’attenzione delle istituzioni e della politica.

In quella “corona” vivono e lavorano quasi 2 milioni di persone che, eccettuate alcune fasce, sono in gran parte ceto medio che non vuole essere considerato, perché non lo è, come i vecchi “borgatari” degli anni ’70 o ’80, ma come protagonisti sociali ed economici, peraltro giovani e attivi, che vogliono essere rappresentati e riconosciuti per le loro peculiarità. E, scommetto, non essere coinvolti nella protesta becera della destra, ma in un progetto di recupero di dignità e ruolo sociale oltre che fisico. Il PD può battere il ribellismo retrogrado della Lega e della destra non proponendo “più uno” alle giuste rivendicazioni sul risanamento di base, ma individuano le soluzioni a queste, inserendole in un progetto più grande che dia la dignità di Capitale alle periferie.

Capitale economica nuova, non certo solo basata sull’edilizia, che sappia dialogare all’interno col centro, sulla staticità o maturità socioeconomica del quale aprire un altro capitolo, ma soprattutto in grado di offrire infrastrutture e servizi più prossimi all’esterno del GRA, la vera, grande, promettente area di sviluppo di Roma nella sua reale, quanto sconosciuta, nuova dimensione socioeconomica multiregionale.

So che una visione strategica nuova presuppone e anticipa la soluzione di nuovi problemi.

Ma dato che si sceglie di partire dalle periferie, facciamolo in modo nuovo e più aderente alla realtà.

Aiuterà a chiarire anche gli altri problemi.

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