Matteo Renzi, espressione della bellezza della politica

Il Paese di Nelson

Letto 7702
Matteo Renzi, espressione della bellezza della politica

“L’Italiano è quello che aspetta che il proprio dovere lo faccia sempre un altro”. Diceva l’ammiraglio Horatio Nelson. Che ci guardava oltre duecent’anni fa.

Oggi, fieri di aver nel frattempo eluso marosi ed eventi perigliosi, riscontriamo il composto disinteresse referendario nella diagnosi di Nelson. Che forse non aveva capito che qui a una personalità pubblica perdonano quasi tutto: inconcludenza, incoerenza, programmi vaghi, amicizie mafiose, condanne definitive. Ma non perdonano soprattutto una cosa: il successo.

E paga Renzi . Che a molti ha fatto assaporare la politica come servizio. La carriera barattata con un obiettivo di modernizzazione del Paese. E il piacere della fatica per degli ideali.

Vero è che Renzi ha girato in lungo e in largo, cercando di entrare nel merito anche quando gli altri evocavano fantasmi di ogni tipo, compresa la consueta deriva autoritaria. Le dichiarazioni di Renzi sono state interpretate, a tratti vivisezionate. Ma nessuno negli ultimi giorni si è soffermato su una frase che Renzi ha pronunciato nell’intervista da Fabio Fazio: “Potere non è un sostantivo, ma un verbo”.

E’ una citazione che i tanti commentatori hanno puntualmente riportato e subito accantonato. Come fosse la proposta di un taglio di due punti di aliquota INPS. E’ invece una citazione di Carlo Alberto Dalla Chiesa. Pronunciata negli ultimi giorni in cui ricopriva la carica di prefetto di Palermo.

Il destino del referendum si è compiuto dopo l’estate. Partita lunga, la campagna vedeva sondaggi con il SI’ oltre il 60%. Poi gli afflati costituenti si sono decantati ed è progressivamente affiorato il bacino elettorale dei singoli partiti, cambiando gli equilibri.

Tranne nel voto degl’italiani all’estero, in gran parte immuni dagli input di bottega, dalle bufale e dal clima da guerra civile. Irrilevante l’effetto-Trump, non pervenuto l’astensionismo, svaporato l’effetto-Bersani. Nel merito si può entrare, ma alla fine è meglio uscirne.

Il regicidio si compie in nome della democrazia diretta e della riforma (mai letta).

In mezzo ai tanti, trova spazio Renato Brunetta, che taglia il traguardo a braccia alzate, come il ciclista che non ha paura di nessuno: sognava un 60 a 40 e così è andata, voto più, voto meno. Nonostante dalle sue parti si continuino a partorire proposte tipicamente post-democristiane: mettere fine a questa legislatura che doveva essere una legislatura costituente. E dar vita a un’altra legislatura, che deve essere costituente. Perfino il punto di non ritorno, per Forza Italia, ha dunque un suo ritorno. Per tornare in ballo senza votare, congelare il Caimano (che è sempre incandidabile) e sperare che nel frattempo Salvini e i grillini vadano in affanno. Tornare a votare, certo, prima possibile. Quindi a novembre 2017.

Spiace che fior di commentatori a botta calda si siano accartocciati sul solito rosario di errori da sgranare. Come l’italiano medio che sogna di fare il commissario tecnico e, dopo una brutta sconfitta, si abbandona a torsioni nel tempo e nello spazio.

Addirittura esiziale per Renzi, secondo il salotto di Maratona Mentana e altri, sarebbe stato eleggere Sergio Mattarella. Dunque siamo a gennaio 2015. E, come in un romanzo di cappa e spada, dobbiamo risalire ai fatti: Berlusconi contatta Renzi e dice di aver chiuso l’accordo con D’Alema sul nome di Giuliano Amato come Capo dello Stato. Ci sarebbe stata anche una cena tra Berlusconi, Nunzia De Girolamo e Francesco Boccia. Mai smentita. Contatti confermati anche dal diretto interessato, Giuliano Amato. Sentendosi scavalcato, Renzi s’infuria, se ne infischia e propone il nome di Sergio Mattarella: il PD lo acclama. Inutile dunque che, mascherando i fatti nelle pieghe della memoria, il Caimano cerchi di straziare le coronarie altrui sulla presunta violazione del Patto (segreto) del Nazareno.

L’ultima sua torsione è recentissima, quando dice che in fondo, Sergio Mattarella, l’avrebbe anche votato. Dichiarazione puntuale, ma con ventitré mesi di ritardo. Nei giorni precedenti il voto del 4 dicembre, il Caimano risveglia gli estri da piazzista e torna alle suggestioni del vecchio rally di fine-campagna: può così intestarsi il risultato. In ordine sparso ecco alcune delle sue piroette: ha prima bocciato poi blandito Renzi, definito “l’unico leader”. La riforma, giubilata sull’altare del Nazzareno, alla fine veniva apprezzata, probabilmente con l’obiettivo di lanciare segnali di fumo al PD. Stefano Parisi veniva spolpato e la sua lisca gettata via. Per investire il fido Del Debbio con l’etichetta di “nuovo Trump”. A Porta a porta il Caimano arrivava invece in vesti dimesse. Con gli occhi insolitamente bassi, quasi scomodo in poltrona. In realtà poi confesserà di aver pensato a Bruno Vespa come suo erede, per poi deviare su Del Debbio. Ma di questa ennesima torsione non si accorge più nessuno. Parla del SI’ di Mediaset dettato dalla paura di ritorsioni, ma l’indomani si scusa. Chiude con un’imperdibile intervista al Corriere della Sera, uscita a pagina 5 di sabato 3. Qui il Caimano sublima le sue mistificazioni. Per lui, Renzi in caso di sconfitta dovrà lasciare la vita politica, perché così disse. E la parola per Berlusconi “e’ sacra”. Urge adesso mettere un punto fermo: ormai del fantasmagorico contratto con gl’Italiani firmato nel 2001 dal notaio Bruno Vespa si è sbiadito il ricordo. Di quella sera, ancora rintracciabile su Youtube, in cui Berlusconi promise che non si sarebbe candidato nel 2006 se non avesse realizzato 4 dei 5 punti del programma (c’erano anche 1 milione e mezzo di posti di lavoro e improbabili aliquote Irpef). Ovviamente non ci riuscì. E puntualmente si ricandidò. Da quegli anni si e’ anche beccato due condanne, una per frode fiscale e l’altra per compravendita di senatori. Ma vuole ancora dare le carte. L’illusionista adesso ti dice che c’è il trucco, che lo devi accettare. E che devi applaudire 

Letto 7702

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Ernesto Consolo

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Aggiornato al 31 marzo 2018

 

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