La solitudine del numero 10

Qualche nota a margine della serata di ieri, allo Stadio Olimpico di Roma, teatro di un post partita atteso da centinaia di migliaia di persone: l’addio di Francesco Totti al calcio

Letto 6134
La solitudine del numero 10

Si dirà: ancora Totti, ancora il calcio, ancora i dolori di un giovane miliardario che non si rende conto della sua ricchezza e della condizione di privilegio che gli è toccata in sorte?

Sì, ancora. Perché la lettera che “Il Capitano” ha scritto e letto in diretta ai suoi tifosi ha spiazzato tutti.

Si pensava ad un discorso standard: ringraziamenti, un po’ di commozione e l’annuncio del brillante futuro all’orizzonte. Come dirigente o addirittura ancora come calciatore ma chissà dove, a quarantun’anni in America, in Cina, in Arabia, o in qualche banana republic come gli americani che espatriano, quelli della canzone di Dalla e De Gregori.

Invece è andato in scena lo spettacolo nudo, quasi osceno, di un uomo smarrito. L’uomo del terzo millennio, noi tutti insomma, spaventati dall’esigenza pressante di “diventare grandi”. Già si sprecano le critiche, i sopraccigli alzati, i sorrisetti dei presunti intellettuali che non hanno mai capito una cippa del mondo in cui vivono perché disprezzano il calcio, l’umanità e, in fin dei conti, loro stessi.

Mai come ieri l’angoscia della metamorfosi (inscenata ma non ancora davvero realizzata) del bambino in uomo è stata così crudamente sbattuta in faccia a milioni di persone. Totti ha voluto regalarci la sensazione di essere in qualche modo “superiori” a lui, ieri. In quanto già emancipati, passati alla fase adulta, persone cui chiedere aiuto.

Ma è proprio così?

E’ ovvio che il futuro di Totti sarà enormemente migliore del 99,9999% di tutti gli altri umani meno fortunati di lui. Ma ieri lui ci ha fatto capire che quel 0,0001 fa ancora la differenza, e di questo va ringraziato ancora una volta.

Il bambino, al centro di uno stadio pieno zeppo di persone che lo adorano, attorniato da amici e familiari affettuosi, ha un vuoto nello stomaco, si sente solo.

Scrive “mi mancherai” sul pallone, prima di calciarlo lontano, per l’ultima volta.

Probabilmente è il momento in cui l’uomo nasce e comincia, piano piano, a morire.

Letto 6134

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Giorgio Cavagnaro

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Aggiornato al 31 marzo 2018

 

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